ARTRITE REUMATOIDE - MANIFESTAZIONI EXTRARTICOLARI

ARTRITE REUMATOIDE - MANIFESTAZIONI EXTRARTICOLARI

ARTRITE REUMATOIDE - MANIFESTAZIONI EXTRARTICOLARI

L'Artrite Reumatoide (AR) è una malattia infiammatoria cronica che colpisce in modo prevalente le articolazioni, ma che può manifestarsi anche con un interessamento sistemico. La gamma delle espressioni cliniche della malattia reumatoide è vastissima. Esistono casi in cui la malattia resta allo stato di malattia biologica documentata dalla positività del fattore reumatoide, clinicamente silente o con espressioni "minori" (fenomeno di Raynaud, osteoporosi circoscritte, etc.). Del resto la presenza di una o più localizzazioni extra-articolari modificano la prognosi della malattia, essendo spesso espressione della cosiddetta "AR maligna". La presenza e la gravità delle manifestazioni extra-articolari sono variabili da caso a caso. Di norma esse compaiono in soggetti con: · positività per il fattore reumatoide · coinvolgimento articolare marcato · malattia di più lunga durata. 


Sono possibili manifestazioni: 


  • cutanee
  • oculari 
  • cardiovascolari 
  • pleuro-polmonari 
  • neurologiche 
  • gastroenterologiche
  • Osteoporosi da farmaco


Manifestazioni cutanee:

Atrofia ed iperpigmentazione: sono le manifestazioni cutanee più comunemente apprezzabili.


Eritema palmare: arrossamento del palmo delle mani. Piccoli infarti delle estremità delle dita.


Ulcerazioni cutanee: spesso localizzate alle gambe sono caratteristiche della vasculite in corso di AR.


Noduli reumatoidi: sono presenti nel 30% dei pazienti. Abitualmente sottocutanei a livello delle superfici articolari estensorie (superficie olecranica), possono svilupparsi anche in altre aree soggette a pressione meccanica, ed in sedi viscerali (pleure, meningi). Possono generarsi ovunque si verifichi un trauma ripetuto.

 

Manifestazioni oculari:


Cheratocongiuntivite secca (sindrome di Sjogren): è la forma più comune. Colpisce la cornea e la congiuntiva ed è caratterizzata da arrossamento della congiuntiva, riduzione della normale lacrimazione, prurito e bruciore oculare, sensazione di corpo estraneo, fotofobia e blefarospasmo. Vi può essere anche una diminuzione dell'acuità visiva. Col progredire del danno possono comparire infezioni ( spesso asintomatiche) ed ulcerazioni corneali sino alla perforazione. La tumefazione delle ghiandole lacrimali è rara. 


Uveite anteriore: infiammazione della tunica vascolare dell'occhio (tunica media). Si manifesta inizialmente con vago dolore orbitario, accompagnato da modesta fotofobia (= intolleranza visiva alla luce) e lacrimazione, quest'ultima caratterizzata da una sensazione di "lacrima clada". Il quadro rapidamente peggiora, con forte dolore localizzato o irradiato all'orbita ed ai territori trigeminali. La dolorabilità bulbare diviene spiccatissima, la fotofobia si fa intollerabile e da ultimo anche la vista progressivamente diminuisce. 


Episclerite: infiammazione dello strato più esterno della "sclera", vale a dire, di quella parte di color biancastro che avvolge l'occhio esternamente. 

 

Scleromalacia perforante: forma molto più rara, caratterizzata da degenerazione ed assottigliamento (rammollimento) della sclera, fino alla perforazione della medesima. Si manifesta con la comparsa di placche e/o noduli giallastri, poco rilevati e indolori. Dopo circa sei mesi compare nella zona corrispondente al nodulo una perdita di sostanza, da 1 a 3 mm di diametro, che può essere così marcata da mettere a nudo l'uvea sottostante, ricoperta solamente da una congiuntiva spesso atrofica. 


Manifestazioni cardiovascolari:


Pericardite: è presente in oltre il 50% dei casi ed è abitualmente asintomatica, dunque clinicamente poco evidente. 


Miocardite - Endocardite - Insufficienza aortica: sono difetti di conduzione. Buona parte di queste manifestazioni sono dovute alle lesioni dei tessuti cardiaci provocate dalla presenza di noduli reumatoidi sulle valvole o a livello del tessuto di conduzione. 


Manifestazioni pleuro-polmonari:


Sono più frequenti nel sesso maschile. 


Pleurite: rappresenta la manifestazione più frequente, spesso asintomatica e di occasionale riscontro radiologico.   


Fibrosi interstiziale diffusa: meno frequente e raramente accompagnata da ipertensione polmonare secondaria.   


Noduli pleuro-polmonari singoli o a gruppi: la presenza di un AR con un quadro polmonare nodulare in pazienti con pneumoconiosi viene definita sindrome di Caplan (oggi quasi del tutto scomparsa). - Bronchiolite obliterante - Bronchiolite obliterantecon polmonite organizzata. 


Manifestazioni neurologiche:


Sono quasi esclusivamente a carico del sistema nervoso periferico, variabili da una lieve neuropatia sensoriale distale ad una grave mononevrite multipla. La frequenza delle lesioni dei nervi periferici in corso di AR sembrerebbe aumentata dopo l'introduzione della terapia steroidea, ma queste complicanze possono insorgere anche in soggetti mai trattati con corticosteroidi. Sopraggiugnono di solito nel corso di AR di vecchia data, sieropositive e con notevole componente infiammatoria. Il meccanismo patogenetico non è ancora del tutto chiaro.


Nelle forme localizzate sembra prevalere un fattore di compressione (es. sindr. tunnel carpale). In questi casi la decompressione del nervo coinvolto può essere seguita da un soddisfacente recupero. Per le forme estese, multineuritiche, sembrano riconducibili a meccanismi vasculitici, la cui diffusione si traduce talvolta in necrosi cutanee e lesioni viscerali, tanto da poter parlare di AR maligna. La terapia di queste forme è complessa, tanto più che i corticosteroidi sembrano poterne favorire l'insorgenza e gli aumenti della posologia appaiono inefficaci anche nelle forme conclamate. 


Multineurite: è il quadro più comune ed interessa particolarmente il territorio dello sciatico popliteo esterno, dello sciatico popliteo interno, dell'ulnare, del radiale e del mediano. Il deficit motorio, che si instaura rapidamente, a volte in modo brutale, è abitualmente preceduto da parestesie o dolori. 


Forme localizzate mononeuritiche: soprattutto a livello del nervo mediano. Una sindrome del tunnel carpale può essere la manifestazione d'esordio di un'AR. Sono descritte anche mononevriti a carico dell'ulnare, dello sciatico popliteo esterno, del tibiale posteriore (sindrome del tunnel tarsale). 


Neuropatia sensitiva distale: con compromissione limitata ai nervi delle dita ("neuropatie digitali"). Raro ma grave è il coinvolgimento del midollo cervicale, da sublussazione vertebrale: i segni neurologici si instaurano progressivamente o all'improvviso. Il quadro clinico è quello di una compressione midollare alta con danno che si manifesta a livello degli arti superiori ed inferiori (disestesie, parestesie, paresi fino alla para- o tetraplegia). La terapia di queste dislocazioni del rachide cervicale è chirurgica. 


Manifestazioni gastroenterologiche:



La manifestazione più comune è la xerostomia ("bocca secca"), tipica della sindrome di Sjogren, nel qual caso coesistono spesso tumefazione della parotide (60% dei casi) e compromissione della deglutizione (disfagia). L'interessamento salivare si manifesta con secchezza della bocca, disepitelizzazione e fissurazione della mucosa orale e linguale, aumentata suscettibilità alle infezioni locali (soprattutto da Candida), carie, parodontopatia. Il quadro clinico della sindrome di Sjogren si completa con un interessamento oculare di cui si è già detto in precedenza (vedi "manifestazioni oculari"). Per il resto le turbe dell'apparato gastroenterico sono più frequentemente di ordine iatrogeno che patogeno (gastrite da FANS, ulcera e complicanze emorragiche). Da tenere in considerazione è la comparsa di una sindrome da malassorbimento, spesso non riconosciuta, e/o la contemporanea presenza di steatorrea (presenza di un'eccessiva quantità di grassi nelle feci), che deve essere corretta nelle componenti di ordine pancreatico ed altre.  


Artrite Reumatoide e Diabete tipo 2:


Gli adulti con artrite reumatoide hanno il 23% in più di probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2 rispetto agli individui senza la malattia, suggerendo che entrambe le condizioni possano dipendere dalla presenza di uno stato infiammatorio sistemico. Sono i risultati di una meta-analisi presentata al congresso della European Association for the Study of Diabetes (EASD) 2020 che si è tenuto in forma virtuale. «Un numero crescente di evidenze mostra come l'infiammazione rappresenti un fattore chiave nell'insorgenza e nella progressione del diabete» ha affermato il primo autore dello studio Zixing Tian, della divisione di diabete, endocrinologia e gastroenterologia del Manchester Academic Health Science Center, University of Manchester, UK. «L'infiammazione sistemica associata a disturbi infiammatori come l'artrite reumatoide potrebbe contribuire al rischio di sviluppare il diabete nel corso della vita».


Infiammazione sistemica alla base del rischio


Per l’autore senior Adrian Heald, dei Leighton and Macclesfield Hospitals, l'infiammazione sistemica associata all'artrite reumatoide potrebbe contribuire al rischio di sviluppare il diabete in futuro. «Sappiamo che tutte le condizioni infiammatorie, per loro natura, aumentano i livelli di citochine circolanti e questo porterà allo sviluppo del diabete di tipo 2 e a problemi cardiovascolari», ha spiegato. «Anche una volta superato l'episodio acuto del disturbo infiammatorio, potrebbe persistere un livello di infiammazione subclinica che si traduce in cambiamenti nel sistema arterioso, nella resistenza all'insulina e nella funzione delle cellule beta pancreatiche».


Si aggiunga il fatto che l'artrite reumatoide può essere associata a una ridotta mobilità, che spesso comporta una riduzione dell’attività fisica, ha aggiunto. «È una combinazione dell'effetto dell'infiammazione sui processi alla base dello sviluppo del diabete di tipo 2, in particolare i cambiamenti nel sistema vascolare legati all'ipertensione e alle malattie macrovascolari che portano all'insulino-resistenza e potenzialmente a un certo grado di stanchezza delle cellule beta, ulteriormente aggravati da eventuale sovrappeso e dalla riduzione del consumo di calorie».


A suo parere i medici dovrebbero consigliare ai pazienti con artrite reumatoide uno stile di vita sano e la prevenzione del diabete. L’obiettivo è aumentare la consapevolezza degli operatori sanitari riguardo al legame tra le due patologie, in modo che tengano conto che i pazienti con artrite reumatoide hanno un rischio elevato di sviluppare prediabete o diabete di tipo 2 in futuro. La raccomandazione è di eseguire su questi soggetti un test dell'emoglobina glicata basale e uno screening del profilo lipidico.


Osteoporosi da farmaco:


L’osteoporosi causata da farmaci è una comune forma di osteoporosi secondaria, cioè è la perdita di tessuto osseo determinata non da malattie endocrine, ematologiche, gastrointestinali, renali ecc., ma da terapie farmacologiche. Si calcola che proprio i farmaci siano la causa principale di osteoporosi secondaria che interessa quindi non soltanto donne in post-menopausa e soggetti anziani, ma anche soggetti giovani. Tra i “colpevoli” si annoverano cortisonici, immunosoppressori, diuretici, anticoagulanti, chemioterapici e ormoni tiroidei. Ne hanno discusso gli esperti riuniti dal GIOSEG, il Gruppo di Studio su Glucocorticoidi e osso e sull’Endocrinologia dello Scheletro nella 9° Conferenza Internazionale GIO di Roma.


Osteoporosi primaria e secondaria


Nell’osteoporosi primaria la prevalenza è appannaggio delle donne nel periodo successivo alla menopausa perché presentano fisiologicamente una minore massa ossea rispetto agli uomini e dopo la fine dell’età fertile pagano lo scotto della perdita di protezione da parte degli estrogeni. In quella secondaria la fanno da padrone, oltre ad alcune malattie, terapia di svariate condizioni, in primo luogo i cortisonici.


Osteoporosi e cortisonici


Andrea Giustina, professore ordinario di Endocrinologia all’Università di Brescia e presidente del GIOSEG, spiega: «Sappiamo ormai da tempo che i glucocorticoidi, più conosciuti con il termine di cortisonici, determinano una perdita di densità minerale particolarmente rapida a livello trabecolare (il tessuto lamellare che costituisce l’osso maturo): nei primi 6-12 mesi di terapia può raggiungere una importante diminuzione sino al 15% in un anno per poi rallentare, pur mantenendo un ritmo negativo del 3-5% per ogni anno di terapia. Fratture che possono essere asintomatiche si verificano nel 30-50% dei pazienti che ricevono queste terapie a lungo termine: l’analisi morfometrica del corpo vertebrale in uno studio multicentrico italiano coordinato da GIOSEG apparso sulla rivista scientifica Bone ha rivelato che il 37% delle donne in menopausa in terapia cronica con cortisone ha subito una o più fratture vertebrali. E un terzo dei pazienti va incontro a fratture dopo soli 5 anni di trattamento con una perdita di tessuto scheletrico direttamente proporzionale alla dose di farmaco. Tra 2,5 e 7,5 mg di prednisolone al giorno è la dose associata ad un rischio di frattura 2,5 volte superiore. Dosaggi di 10 mg per almeno 90 giorni fanno impennare il rischio da 7 a 17 volte». I farmaci cortisonici sono utilizzati ubiquitariamente per il loro prezioso effetto antinfiammatorio in numerose condizioni come malattie reumatiche e artrite reumatoide, asma e allergie e malattie croniche infiammatorie dell’intestino come il Morbo di Chron, ma il loro effetto avverso è un declino della massa ossea pari a quello che si verifica nelle donne in post-menopausa. I cortisonici hanno effetti sia diretti che indiretti: ostacolano e compromettono la replicazione e la funzione degli osteoblasti e spingono alla morte osteoblasti e cellule mature in un meccanismo di suicidio cellulare noto con il termine apoptosi, una alterazione che compromette la formazione di osso nuovo e che provoca quindi il deficit.


Altri farmaci che causano osteoporosi


Oltre ai cortisonici, sono numerose le molecole capaci di interferire negativamente con il metabolismo dell’osso anche in giovane età:


  • farmaci immunosoppressori (come la ciclosporina), usati nelle persone che hanno ricevuto un organo da trapianto;
  • metotressato, utilizzato in numerose malattie reumatiche;
  • analoghi del GnRH, usati nell’endometriosi e nel trattamento del cancro alla prostata: sopprimono la produzione di gonadotropine;
  • inibitori delle aromatasi, usati nel carcinoma della mammella la cui azione è sopprimere la produzione extra-gonadica di estrogeni che normalmente avrebbero una azione protettiva sullo scheletro;
  • farmaci anticonvulsivanti come la fentoina e i barbiturici riducono i livelli circolanti della 25 idrossivitamina D3, il precursore della forma attiva della vitamina D;
  • eparine non frazionate, anticoagulanti usati in soggetti cardiopatici o con problemi di trombosi;
  • tiroxina, ormone tiroideo usato come terapia sostitutiva dell’ipotiroidismo e nelle forme autoimmuni come la tiroidite di Hashimoto e soppressiva (ad alto dosaggio) nel cancro della tiroide dopo asportazione della tiroide. L’ormone tiroideo non è di per sé dannoso per l’osso, anzi in età pediatrica ha un ruolo fondamentale nel favorire l’accrescimento scheletrico. Tuttavia, l’ormone tiroideo ad alto dosaggio può causare perdita di massa ossea e aumentato rischio di fratture, soprattutto quelle vertebrali e soprattutto nelle donne in menopausa e nei maschi anziani. È rilevante il dato clinico che circa il 25% dei soggetti con ipotiroidismo in trattamento sostitutivo sono a rischio di un eccessivo trattamento con tiroxina e come tali a rischio di fratture;
  • tiazolinedioni, molecole usate per il trattamento del diabete di tipo 2, che inducono un aumento della massa grassa e una diminuzione di quella ossea. La terapia a lungo termine (più di 12-18 mesi) con questi agenti aumenta di 4 volte il rischio di fratture anche nei maschi;
  • inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina SSRI, molecole attive sul sistema nervoso per il trattamento della depressione, se somministrate a pazienti anziani, raddoppiano il rischio di fratture;
  • antiretrovirali usati per il trattamento dell’HIV, causano perdita di osso aumentando e accelerando il riassorbimento del tessuto e causando fratture nel 40% delle donne e nel 70% degli uomini;
  • inibitori di pompa protonica, «ampiamente utilizzati (e spesso abusati) per il trattamento delle patologie gastro-esofagee. Questi farmaci, sia con un meccanismo diretto sulle cellule ossee che indirettamente attraverso un malassorbimento di calcio, possono causare fragilità scheletrica con aumento del rischio di fratture» spiega Gherardo Mazziotti, segretario GIOSEG.


«Dobbiamo pensare alle persone in senso globale, pensando anche alla loro salute scheletrica presente e futura – precisa Andrea Giustina – Innanzitutto è fondamentale sfatare il mito che l’osteoporosi sia solo al femminile. Soprattutto quando si parla di osteoporosi secondarie è spesso il maschio ad avere la peggio ma pochi sono portati a considerare questo fatto nella pratica clinica. Va poi sottolineata l’importanza critica del cosiddetto esame morfometrico vertebrale nei pazienti con osteoporosi secondaria che possono andare incontro a fratture vertebrali anche con un quadro densitometrico osseo normale o poco alterato (comunemente chiamata osteopenìa). Spesso i pazienti soprattutto i maschi trattati per le loro malattie con farmaci osteopenizzanti non vengono sottoposti ad adeguato e periodico (ogni 12-18 mesi) monitoraggio della densità minerale ossea con l’esame MOC DEXA. Inoltre, anche le terapie protettive e preventive che pure esistono a base di calcio e di vitamina D e di farmaci antiriassorbitivi come i bifosfonati non sempre sono instaurate per tempo (cioè prima che il paziente si fratturi). Per alcuni farmaci ad alto impatto negativo scheletrico, quali i cortisonici e gli inibitori dell’aromatasi, le linee guida stabiliscono di intraprendere quanto prima un trattamento anti-osteoporotico di protezione per lo scheletro e di prevenzione delle fratture che in questi casi possono essere particolarmente precoci».


Farmaci osteopenizzanti in età pediatrica


Non esistono fasce di età protette dal danno scheletrico da farmaci. Durante l’infanzia e l’adolescenza, lo scheletro immagazzina calcio per proteggersi dalle fratture in età geriatrica. Anche in età pediatrica può essere necessario ricorrere a terapie farmacologiche a base di cortisone in corso di patologie renali, respiratorie, gastrointestinali, artriti ad esordio giovanile e dopo il trapianto d’organo. L’utilizzo di terapie cortisoniche durante le prime decadi di vita ha effetti negativi sulla crescita e sulla salute dello scheletro condizionando un aumento sia presente sia futuro del rischio di frattura. L’uso di calcio e soprattutto di vitamina D iniziato contemporaneamente alla somministrazione di cortisone è considerato fondamentale nella prevenzione del danno osseo da cortisone nel bambino. Nei casi più gravi possono essere utilizzati i bifosfonati come nell’adulto. La terapia con ormone della crescita può trovare indicazione nel deficit di accrescimento collegato all’uso di cortisone, ormone chiave nella regolazione della produzione dell’ormone della crescita. Gli esperti concludono che è necessario un maggiore dialogo tra specialisti che prescrivono farmaci potenzialmente osteopenizzanti e specialisti dedicati alla diagnosi e cura dell’osteoporosi.


Artrite reumatoide - Redazione Reumatoide.it - Febbraio 2021

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